Data la sua grande pregnanza, ed l’importante successo riscosso, pubblichiamo qui il discorso tenuto da Fabio Pusterla, invitato da Ivo Dürish per il 1° agosto a Riva San Vitale.

Non ho mai fatto un discorso per il primo agosto, e non sono sicuro di essere in grado di farne uno questa volta. Probabilmente avrei anzi rifiutato l’invito, come mi è già capitato di fare in passato, se non ci fosse stata l’amichevole insistenza di Ivo Dürisch, da un lato; e il fatto che si trattava di parlare a Riva San Vitale, dall’altro. Infatti a Riva San Vitale sono venuto spesso, nel corso della mia vita; e forse posso provare a cominciare proprio da qui, dalle immagini che riesco a recuperare di questo paese e vedere se da queste immagini non si possa ricavare qualche motivo non troppo retorico per festeggiare il passato e per guardare con un po’ di allegria al futuro.

Io sono cresciuto a Chiasso; e da Chiasso venivo a Riva, inizialmente, in bicicletta, e poi in motorino; più raramente in treno e anche più raramente accompagnato in auto da qualche amico più grande. Salire a Riva voleva dire attraversare buona parte del Mendrisiotto; soprattutto se non sceglievo la via più diretta, ma passavo da Novazzano, traversavo quel che rimaneva della Campagna Adorna, deviavo verso Rancate, e finalmente scendevo lungo una delle strade più belle che conosco, che dalla Rossa conduce a Riva. Ci passo ancora spesso; e ci sono passato qualche anno fa con mio figlio allora adolescente, in auto; e lui, che forse non era mai stato lì, mi ha detto: ma è bellissimo! Certo, è bellissimo, nonostante tutti gli scempi che sappiamo; perché dalle alture tra Rancate e Riva si apre sulla destra un paesaggio dolcissimo, di vigneti e colline e prati, chiuso in fondo da un monte Generoso non ancora aspro e cattivo. È un paesaggio aperto, accogliente, ospitale, che mette allegria; un paesaggio che parla di passaggio, di transito, di lavoro umano sedimentato nei secoli. Potremmo essere in Umbria, in Toscana, o in molti altri posti. E invece siamo vicini a Riva San Vitale, dove io venivo tanti anni fa soprattutto per tre ragioni.

La prima era che a Riva si organizzava un notevole cineforum. Non so quante volte ho assistito a quelle proiezioni; certo, è curioso che un villaggio appartato e quasi marginale, come Riva, potesse offrire simili aperture. Del resto a Riva, e questa era la seconda ragione, abitava Flora Ruchat, e sua figlia, Anna, più o meno mia coetanea, era l’organizzatrice di quel cineforum. A casa loro sono stato più volte, senza mai incontrare purtroppo un poeta nomade e particolare come Franco Beltrametti, che a Riva aveva il suo accampamento di base, dove tornava dopo i suoi giri per il mondo, dalla California al Giappone; ma sempre con una sensazione strana: entravo nella corte o in qualche locale, ma in realtà mi sembrava di uscire, di respirare un’aria più ampia, come se, di nuovo, a Riva potesse misteriosamente darsi appuntamento un mondo vasto e complesso. Più tardi, avrei anche conosciuto Leonardo Zanier, scomparso negli scorsi mesi, il poeta friulano dell’emigrazione italiana, compagno di Flora Ruchat: ancora un elemento sorprendente. Quando ero un bambino, mi era capitato di venire a Riva con i miei genitori, a mangiare qualcosa o di passare attraverso il paese per andare in Poiana; e mai avrei potuto pensare che dieci anni dopo ci sarei venuto per scoprire una fetta di mondo che qui diventava visibile. Ho lasciato per ultima la terza ragione, senz’altro la più importante: a Riva c’era una ragazza con cui avevo una storia; era la figlia di una pittrice che molti ricorderanno, Joyce Davenport, nella cui casa per me stupefacente ho visto forse per la prima volta dei quadri, dei cavalletti, e quel disordine che spesso può caratterizzare l’atelier di un artista. Una volta ho conosciuto anche il padre della mia ragazza, che viveva in America ed era un importante scultore, e che mi aveva molto impressionato.

Tante immagini, a cui tra non molto ne aggiungerò ancora due, più recenti; ma che disegno vanno a comporre? Che senso producono? Intanto, penso, danno il senso di un territorio a cui sento di appartenere; un territorio definito, molto più che dai confini politici, dalle dogane o dai passaporti, dalle vicende umane che ho incontrato, e attraverso le quali sono cresciuto; dai paesaggi che ho guardato con commozione; dalle storie a cui si è intrecciata la mia storia. Si potrebbe fare un gioco: mettersi attorno a un tavolo, e ognuno raccontare le immagini più forti e più nitide che ci legano al territorio. Scommetto che ne uscirebbe un caleidoscopio meraviglioso e pieno di aperture in tutti i lati. Discendiamo tutti da una complessità di cui non conosciamo esattamente le origini; da lingue diverse che si sono incrociate, da provenienze vicine o lontane che qui hanno saputo incontrarsi, da antenati di cui abbiamo smarrito il ricordo, ma che in qualche modo, attraverso infinite, ammirevoli e spesso drammatiche peripezie, ci hanno condotto qui questa sera. Possiamo chiamare “patria” questo sentimento di appartenenza e di apertura, di radice e di vertigine? Forse, anche se la parola “patria” è una parola complessa e pesante; anni fa, qualcuno aveva persino suggerito di sostituirla con la parola “matria”: se la patria fa pensare ai padri, ai doveri, agli eserciti, la matria sarebbe invece il luogo degli affetti, della lingua (non a caso “materna”), della casa. Ognuno scelga pure il termine che sente più appropriato; a me piace la parola “territorio”, proprio perché mi sembra più libera e aperta, e dentro l’idea del territorio non fatico a sentirmi a mio agio. Il territorio, proprio come suggeriscono le immagini di prima, non è mai esattamente circoscrivibile; noi forse gli apparteniamo, o almeno gli appartiene una fetta importante della nostra vita; ma non vale il contrario, perché il territorio, come la terra, non appartiene a nessuno, è di tutti e dura ben al di là delle nostre vite. Così in realtà noi abitiamo il territorio, come abitiamo la lingua e il tempo: cose più grandi di noi, e che tuttavia anche noi contribuiamo a far crescere o a distruggere, a migliorare o a rendere inabitabili. Abitiamo con riconoscenza il territorio a cui sentiamo di appartenere; ma se frughiamo dentro le ragioni del nostro affetto, sentiamo che quel territorio è un luogo aperto e libero, in cui molte altre persone sono passate e passeranno.

È difficile amare una prigione; e nessuno di noi quindi vorrebbe vivere in un territorio prigioniero di se stesso e della propria paura. Un grande scrittore, Friedrich Dürrenmatt, aveva nel 1990 tenuto un discorso coraggioso e scandaloso, parlando della Svizzera come di una prigione, in cui i cittadini sono contemporaneamente prigionieri e carcerieri di se stessi; e l’aveva fatto accogliendo un importante intellettuale cecoslovacco, Vaclav Havel, che in prigione, quella vera, c’era stato sul serio, e che poi era diventato il primo presidente della Cecoslovacchia finalmente libera. Ma se ripenso alle immagini che ho ricordato poco fa, io non ho la sensazione della prigione; al contrario, mi pare che il territorio di cui ho parlato finora abbia saputo essere, e possa continuare ad essere, un luogo di incontro, di accoglienza e di apertura, senza troppi muri, senza troppe barriere, senza troppe paure. È questo che mi hanno insegnato le esperienze fatte a Riva, tanti anni fa, ed è questo l’augurio che vorrei rivolgere a noi tutti: di non cedere alla tentazione della paura, di non dimenticare quel senso di apertura e di accoglienza che sale dalla storia e dal paesaggio del nostro territorio.

E infine, è a questo che mi fanno pensare le ultime due immagini che vorrei richiamare, e che riguardano purtroppo due amici scomparsi negli ultimi anni. Il primo era un uomo di scuola, Claudio Origoni, che ho visto per l’ultima volta proprio qui, seduto al tavolo di un bar che beveva un caffè, e accanto aveva la bombola dell’ossigeno che negli ultimi tempi non poteva abbandonare. Eppure sorrideva, voleva parlare di cose belle, non di malattia, di libri letti e di cose da fare. Anche il secondo era un uomo di scuola, e molti lo ricorderanno con affetto: Davide Pedraglio, che lavorava come custode e bidello al Liceo di Lugano 1, e che ci ha lasciati troppo in fretta. Penso spesso a lui, che incontravo quasi ogni giorno e con cui ridevo, scherzavo e talvolta parlavo degli studenti, che lui osservava con affetto e aiutava in tutti i modi. Quando ripenso a Davide mi viene in mente soprattutto la parola: gentilezza. Non una gentilezza di buone maniere e di facciata, ma quella gentilezza profonda, che nasce da una nobiltà d’animo e da un atteggiamento di fiducia e di ospitalità nei confronti del prossimo. Quella gentilezza che si vede ancora nel paesaggio venendo da Rancate a Riva.

Un poeta e traduttore italiano, Ariodante Marianni, ha scritto: «Non bisogna stancarsi / di predicare la gentilezza». E allora è forse questo l’augurio vero che vorrei fare a tutti questa sera: che non ci stanchiamo di predicare la gentilezza, tenendo a bada i brutti pensieri. Perché i brutti pensieri ci conducono verso l’ostilità, che è l’esatto contrario dell’ospitalità; e l’ostilità, ce lo dice un altro grande poeta del Novecento, Edmond Jabès (di origine egiziana, è poi vissuto a lungo a Parigi; ma chissà, sarebbe anche potuto arrivare persino a Riva SanVitale: come anonimo rifugiato, come asilante, o come una di quelle ombre disperate che ogni tanto cogliamo con la coda dell’occhio, mentre camminano verso nord, sull’autostrada dopo Brogeda), l’ostilità è qualcosa di pericoloso. «L’ostilità al mondo e agli altri è forse soltanto la greve nerezza di un’ombra che è indifferente al ripetuto richiamo della luce». Possiamo scegliere di rimanere fedeli alla nostra storia, che è storia di luce, di ospitalità e di apertura; o di tradirla, consegnandoci all’ostilità e alle sue tenebre.

Nel segno dunque della luce, della gentilezza e dell’ospitalità, buon primo agosto a tutti!