Di Danilo Baratti, consigliere comunale a Lugano per i Verdi

In un’opinione apparsa il 20 luglio sul «Corriere del Ticino», Nicholas Marioli è intervenuto in merito alla «decisione di una società di ginnastica e di una scuola argoviesi, di proibire, in occasione delle feste di fine anno scolastico, la carne di maiale, in modo particolare i cervelat (carne tradizionale svizzera tipicamente da grigliare) in segno di rispetto nei confronti degli alunni musulmani». Già qualche giorno prima (ma forse dopo che Marioli aveva scritto la lettera) il contorno della vicenda si era chiarito: una direzione scolastica, in vista di un pranzo organizzato per l’ultimo giorno di scuola, avrebbe semplicemente invitato i ragazzi a portare qualcosa da mangiare (formaggio, dolce o carne) suggerendo di evitare la carne di maiale, affinché tutti potessero condividere tranquillamente il cibo. Ma lasciamo pur perdere la vicenda reale e concentriamoci sulla questione posta da Marioli: «La prassi consolidata e adottata da sempre durante le feste di fine anno scolastico senza alcuna restrizione per nessun tipo di carne, non viola in alcun modo la discriminazione degli stranieri, e non, in quanto nulla a che vedere con l’odio contro una persona o un gruppo di persone per il loro paese di provenienza, l’etnia o la religione e annessi e connessi, come giustamente punisce il Codice penale all’articolo 261bis» (riprendo il suo scritto alla lettera, invitando a leggere «non discrimina in alcun modo gli stranieri» invece di «non viola in alcun modo la discriminazione»). Nella sostanza posso dargli ragione, e certamente si possono immaginare altre soluzioni pragmatiche di rispetto della diversità culturale, in cui il cervelat tradizionale possa conservare il proprio posto e la propria dignità, magari accanto agli pseudo-cervelat a base di carne di pollame e a tutto quanto di diverso, e non necessariamente carneo, si voglia buttare su una griglia ardente. Non arriverei a dire, come sembra fare Marioli, che arrostire salsicce sulla graticola costituisca una forma di «promovimento delle nostre tradizioni», anche se non faccio fatica a riconoscere nel cervelat un elemento identitario della cultura popolare: die Schweizer Nationalwurst, la salsiccia nazionale.

Proprio per questo mi sembra interessante dedicare un po’ di attenzione al sottile involucro che lo racchiude: il budello. Già ai tempi della mucca pazza buona parte dei budelli usati per la produzione di cervelat svizzeri erano brasiliani. Ma nel 2006 anche il Brasile era stato toccato dall’encefalopatia spongiforme bovina e si era introdotto un divieto di importazione europeo, a cui la Svizzera si era allineata. Nel 2008 le scorte di budello brasiliano, tratte dai morbidi intestini della vacca zebú, si stavano drammaticamente esaurendo e il ricorso temporaneo a budelli di bovini argentini, uruguaiani e paraguaiani ha impedito la catastrofe nazionale. Poi nel 2012 il tutto è tornato alla normalità (?) con la fine del divieto di importazione del budello brasiliano. L’attuale prodotto è quindi figlio della globalizzazione: un aspetto non trattato nella peraltro ricca voce dedicata al cervelat/cervelas e alla sua storia nel sito del Patrimonio culinario svizzero (www.patrimoineculinaire.ch).

E che dire dell’involucro degli altri 400 tipi di salsicce svizzere, di diffusione meno nazionale ma saldamente ancorate alle culture alimentari regionali? Recentemente l’Iniziativa delle Alpi ha fatto presente che i budelli dei quattro maggiori macelli svizzeri – che poi finiscono per avvolgere bratwurst, landjäger e loro congeneri – sono trasportati in Cina per la lavorazione. Da lì ritornano, con un viaggio complessivo di oltre 44 mila chilometri, in container refrigerati a 6 gradi, prima su nave e poi su camion. Rispetto a budelli trattati in Svizzera, la produzione di CO2 è di 30 volte maggiore. Nessuna etichetta dei prodotti in questione ci racconta queste cose, e il partecipante alla grigliata di paese sarà certamente convinto di mangiarsi un prodotto svizzerissimo, magari a chilometro zero.

Queste notiziole aprono una finestra sul funzionamento perverso di un’economia fondata solo sulla ricerca del minor costo, che non si cura degli effetti collaterali delle proprie scelte, in questo caso lo spreco energetico e l’inquinamento legato ai trasporti, nonché il trasferimento di lavoro in Asia. Concludo invitando anche i patriottici cultori delle tradizioni culinarie locali e i fautori del «prima i nostri» a considerare con attenzione l’iniziativa per la sovranità alimentare che voteremo il 23 settembre, promossa dal sindacato agricolo Uniterre e sostenuta dagli ambienti ecologisti e dell’agricoltura biologica. Tra gli obiettivi dell’iniziativa: promuovere un’agricoltura contadina indigena, remunerativa e diversificata; preservare e sviluppare la produzione indigena, anche tramite l’imposizione di dazi; rafforzare le strutture regionali di trasformazione, di stoccaggio e di commercializzazione. Forse le salsicce svizzere saranno un po’ più care, ma certamente più gustose sul piano etico, ambientale e sociale.

Danilo Baratti, consigliere comunale a Lugano per i Verdi